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Viaggio in Israele – Quarto Giorno

Lunedì, 15 giugno

Nostro ultimo giorno a Gerusalemme. Mattina dedicata alla visita dell’Israel Museum, imponente complesso museale non lontano dalla nuova sede della Knesset e della Corte Suprema. Qui si trovano fra gli altri il Tempio del Libro, in cui sono conservati gli originali dei rotoli di Qumran, e il famoso Yad Vashem, con il Giardino dei Giusti.

Visitare musei a Gerusalemme è come visitare un teatro in un teatro. La città stessa infatti è un museo, anzi di più.

Le costruzioni sono recenti, immerse in un grande parco, così come grandi sono gli spazi e bellissima la luce.

Andiamo subito a vedere il Modello del Secondo Tempio, un grande plastico in pietra rappresentante la città prima della sua distruzione da parte dei Romani nel 66 d.C. Come ho detto questo plastico è grande, ma non abbastanza per camminarci dentro, peccato, avrebbe potuto un’attrazione didattica come la Swiss Miniatur. Infatti originariamente si trovava nel giardino di un albergo.

Ripassiamo con Ornat la lezione appresa in questi giorni, qui si trovava il palazzo di Erode, qui una porta, qui un teatro. E’ un esercizio che aiuta e stimola sia la memoria che la fantasia.

Proseguiamo, oh, guarda, lì c’e un Rodin, invece questa statua è di Henry Moore. E quel cuore di plastica rossa argentata con nastro dorato che sembra uno di quegli orribili palloncini che vendono alle fiere? Appunto è il Cuore Sacro di Jeff Koons, artista statunitense specializzato in opere che rappresentano oggetti Kitsch. Viene voglia di bucarlo con uno spillo, peccato che sia di acciaio. Le apparenze ingannano.

Molto più seria e celebrativa è l’architettura del Tempio del Libro, dove sono custoditi i rotoli di Qumran. C’è una cupola bianca, su cui continua a scorrere acqua, che richiama la forma dei coperchi delle giare di coccio in cui furono trovati i rotoli. Accanto si vede un grande muro di pietra nero, che sovrasta la parete bianca da cui si accede all’interno per ammirare alcuni dei rotoli originali. E’ un chiaro riferimento a quanto scritto su uno dei rotoli trovati: La Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre.

Altra cosa è stata la visita di Yad Vashem, il Museo dell’Olocausto. Anch’esso è in mezzo a un giardino, il famoso Giardino dei Giusti di cui avevo sentito tanto parlare. Non c’è molto da commentare, ma più si pensa a quello che è successo, più si stenta a crederlo. Si è tutti senza parole. Ci sono molti giovani, scolaresche, soldati, semplici turisti, tutti molto coinvolti. Ci sono anche note positive, come la bicicletta di Bartali, che non aveva mai voluto parlare pubblicamente dei suoi atti di eroismo durante la resistenza.

In fondo al percorso c’è una grande finestra, simbolo della fede del popolo di Israele nel futuro, una finestra di luce e speranza, nonostante tutto.

Particolarmente suggestivo il padiglione dedicato ai bambini, tante stelle nella notte buia.
E poi i Giusti, avrei voluto trovare quello del signor Perlasca, e altri nomi familiari, ma non ne ho avuto il tempo.

Dopo tanto raccoglimento si ha bisogno di uscire, tornare nella confusione della città, della vita. E quale luogo meglio del mercato Mahane Yehudah, con i suoi colori, le sue spezie, i suoi personaggi? Ne approfittiamo per fare qualche acquisto, Ester trova un grande shofar, come farà a riportarlo a casa?

Le specialità di oggi sono curde? Ottime come sempre, in un posticino un po’ angusto, ma qui lo spazio è prezioso.

Nel pomeriggio lasciamo Gerusalemme, con una gran voglia di ritornarci, per toccare altri luoghi simbolo.

Betlemme è il primo. La strada si inerpica su ripide rocce bianche. Vediamo altrettanto bianchi complessi di palazzi in costruzione. Sono i famosi insediamenti ebraici nei territori occupati, nella zona di Gerusalemme est. A me non sembrano esattamente insediamenti di pionieri, piuttosto ricordano i nostri episodi di speculazione edilizia. Che sia anche qui un fatto legato al denaro? Tutto il mondo è paese. Certo, inoltrandoci nei “territori” il problema si avverte in tutta la sua gravità. Abbiamo anche intravisto il famoso “Muro”. Non so più cosa pensare. Prima di sposarmi sapevo tutto del matrimonio. Prima di venire qui credevo di sapere tutto su Israele. Adesso, come dice Wittgenstein, “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ci vorrebbe tanta, tanta buona volontà, e, poiché questa è la terra dei miracoli, dobbiamo solo sperare. Di certo i turisti sono protetti, pochi giorni non bastano per capire una situazione così incancrenita. Ma non è questo né il luogo né il momento per fare riflessioni politiche, anche perché non ne avrei la competenza.

Penso però a grandi uomini che ho incontrato, gli scrittori di Israele, Grossman, Oz, Yehoshua, solo per citare i più noti, ma ce ne sono tanti, anche palestinesi. Penso ai registi, agli artisti. Voglio e devo sperare. Se le idee si scontrano, le persone si incontrano, penso per esempio all’iniziativa Semi di Pace, suoi rappresentanti erano venuti anche a Lugano. Speriamo, speriamo.

A Betlemme naturalmente visitiamo la Chiesa della Natività. Confesso che non sono questi i luoghi che mi commuovono di più, anche se c’è tanta, tanta storia.

Rimane poco probabilmente della semplicità e natura primitiva, la grande chiesa è in fase di restauro, cosa che piace molto a Sarah. E’ un pensiero nuovo, che mi sorprende, ma ne capisco la portata.

Bisogna inchinarsi in una porticina piccola piccola per entrare nella grande chiesa, mi sembra giusto. Ci sono, come sempre in questi luoghi, persone in raccoglimento, passiamo davanti ad alcune splendide icone, non dimentichiamo che siamo in area di cristianesimo orientale, e arriviamo alla grotta. Sono colpita da un drappo con alcuni fori, degli occhielli. A che cosa servono, chiedo? Ma per infilare le dita e toccare la roccia della grotta, mi viene detto.

Lasciamo Betlemme, attraversiamo i territori occupati. In questo paese si entra sempre nei titoli dei giornali e nella storia antica e recente.

Vediamo il confine, un reticolato elettrificato. Dall’altra parte c’è la Giordania, con cui peraltro è stata firmata la pace. Piantagioni di palme da datteri e altro. Rientriamo in Israele, c’è un fugace controllo della polizia, come nelle nostre dogane, e ci apprestiamo a sostare nel kibbutz, per due notti.

Altra parola simbolica ed evocativa. Non avevo idea di come fosse fisicamente un kibbutz. Entriamo in quello che potrebbe sembrare un villaggio di vacanze o un centro residenziale. All’ingresso c’è una bella ragazza bionda in shorts, che ci fa segno di entrare. Siamo attesi.

Siamo accolti con grande calore e riceviamo le chiavi dei nostri bungalow. Alcuni cagnolini vengono a salutarci. Le stanze sono semplici, ma c’è un cucinino, il bagno, aria condizionata e tv. La sala da pranzo è in un altro padiglione a un centinaio di metri. Vediamo alcuni gruppi di persone fuori dai loro bungalow che si stanno facendo una grigliata. Bellissimi alberi fioriti dappertutto. Nella caffetteria ci aspetta Pennina, altro nome biblico, che ci mette subito a nostro agio.

Avremo modo di capire di più di questo Kibbutz quando lo visiteremo insieme al suo direttore – o responsabile. A quanto pare non sono più i kibbutz di una volta, istituzioni rigidamente socialiste e utopiche. Adesso sono presenti nel paese in numero inferiore, sono gestiti in modo democratico ma anche manageriale dai consigli dei propri membri, le loro attività sono molto diversificate, vanno dal bed and breakfast all’allevamento di polli, ovini e bovini, all’agricoltura, alle fabbriche high tech. Alcuni membri vi risiedono, altri vanno fuori a lavorare. Gli anziani e i giovani sono curati e assistiti. Ho ammirato i laboratori in cui signore anziane erano attive nella creazione di gioielli e altri oggetti; i piccoli veicoli elettrici messi a disposizione dei membri anziani per girare tra le strade del kibbutz; l’asilo, in particolare il cortile delle cianfrusaglie in cui i bambini giocavano pacifici con i più disparati oggetti scartati dalle abitazioni; gli animali messi a disposizione anche per la terapia dei meno fortunati. Cani e gatti si aggirano tranquilli, si vede che sono amati.
Come ho detto piante e fiori splendidi, che crescono rigogliosi grazie alla cura del bravo giardiniere arabo. Non c’è lusso nel kibbutz, ma certamente non c’è nemmeno squallore.

Lungo le vie sono esposti i vecchi attrezzi, usati per dissodare il terreno e aiutare nel lavoro agricolo ai tempi della sua fondazione.