Archivio mensile:febbraio 2015

La bambinaia con la Rolleiflex

La sorprendente scoperta di una straordinaria fotografa vissuta nel più completo anonimato raccontata in un avvincente film-documentario.

Anche in questa storia tutto è cominciato per caso. Una ricerca sulle origini di un vecchio quartiere di una città americana e l’acquisto ad un’asta di uno scatolone pieno di negativi. Chissà che il giovane ricercatore non trovi qualche documento interessante e utile alla sua indagine? E’ così che John Maloof ha scoperto un vero e proprio tesoro, che avrebbe cambiato anche la sua vita. Che cosa c’era in quei negativi?
Scatti, istantanee, ritratti, autoritratti, scene di vita comune e meno comune.
John si rende conto di avere scoperto dei capolavori. Sconosciuti, eseguiti da una mano e da occhi ignoti. Chi è la persona che ha scattato quelle fotografie?
La ricerca non è semplice. Con pazienza e determinazione John Maloof riesce a mettere insieme gli innumerevoli e minuscoli pezzi della vita di questo/a artista, recuperando in un agazzino scatole e scatole che stavano per essere distrutte. Si tratta di una donna, molto misteriosa. Si scopre che faceva la bambinaia, ma anche la donna di servizio. Si scopre che ha un legame con la Francia, perché sua mamma era francese e insieme avevano trascorso lunghi periodi in un paesino nelle Alpi. Il padre, americano, scompare molto presto dalla vita di Vivian. Si scopre che madre e figlia negli anni ’30 a New York hanno vissuto con una fotografa ritrattista piuttosto famosa, Jeanne Bertrand.
In seguito Vivian ha fatto molti viaggi, continuando a scattare, naturalmente. Pian piano il ritratto si fa più nitido, ma è sempre in bianco e nero. Luci – le sue fotografie – e molte ombre – la sua vita. Single, solitaria, intellettuale, con una grande passione, la fotografia, e un interesse, quasi morboso, per la cronaca nera. Non si sa se abbia amici o famiglia. Anche con i bambini che cura il rapporto è complesso, alcuni l’hanno amata, altri l’hanno temuta e subita.
Chi è quella bambinaia che porta una piccola di sette anni a vedere un mattatoio? Chi è quella babysitter che quando il bambino è investito da un’auto si preoccupa soprattutto di fotografare la scena dell’incidente? Chi è la governante dii una famiglia alto borghese che porta i bimbi a fare una passeggiata nei quartieri più malfamati della città per fissare gli sguardi delle persone più sfortunate? Perché questo interesse morboso per orrendi fatti di cronaca? Perché questa ritrosia ad allacciare amicizie, a lasciarsi avvicinare da un uomo? Perché questa mania di accumulare giornali: nelle sue stanze infatti accumulava pile e pile di giornali e ritagli, cosa aveva intenzione di farne?
Questa storia mi ha immediatamente ricordato un’altra storia drammatica, quella dei fratelli Collier di New York, che per tutta la vita non avevano fatto che accumulare, accumulare di tutto nel loro palazzo in centro a New York. Lo scrittore L. E. Doctorow ha scritto un libro in chiave filosofica ispirato a questa vicenda, Homer and Langley, bellissimo.
Stupisce, nella vicenda di Vivian Maier, il contrasto fra la sua ossessione compulsiva a scattare e scattare fotografie e il rifiuto di pubblicizzarle, persino di stamparle. Sono stati trovati innumerevoli rullini ancora non sviluppati, le stampe sono pochissime.
Purtroppo a tutte queste domande non sarà mai data risposta. Si è scoperto dove è nata, New York nel 1926; dove è morta, Chicago 2009, in assoluta solitudine; si sa dove e con quali famiglie ha lavorato. Si può capire qualcosa di questa persona così singolare dalle sue opere, ma nel complesso rimane un mistero.
C’è empatia o distacco nelle sue fotografie? Perché nei suoi magnifici autoritratti, “selfie” si direbbe adesso, non sorride mai? Perché questo interesse per oscuri fatti di cronaca nera, stupri, abusi, strani delitti? Una volta lei stessa si è definita una spia e forse è la descrizione più azzeccata per questa persona che tanto amava la segretezza.
Non si sa se avrebbe apprezzato la notorietà di cui sta godendo adesso. Soprattutto credo che non avrebbe certo gradito le polemiche e persino le cause legali che sono ora in corso riguardo ai diritti di pubblicazione delle stampe. Come avrebbe reagito al rifiuto dei maggiori musei di ospitare le sue opere. Il lato oscuro della vicenda.
Come avvicinarsi a questa artista e conoscerla meglio?
Io l’ho scoperta grazie al film :
Alla ricerca di Vivian Maier. DVD. Con libro
di John Maloof, Siskel Charlie
Feltrinelli
Inoltre la mostra “Vivian Maier: A photographic Revelation” sta viaggiando in Europa e arriverà a Torino per l’autunno 2015, e molto probabilmente per gli inizi del 2016 a Roma.

vivianmaier

Senza titolohttp://www.vivianmaier.com

LA FAMIGLIA KARNOWSKI E YOSHE KALB

Pubblicati anche in Italia i libri di Israel Singer

Non sono una critica letteraria di professione, mi piace parlare dei libri che ho amato per condividere il piacere con gli amici. Un libro è un amico, avere in comune un libro che piace è avere un amico in comune in più, una ricchezza. Quando scopro un autore mi piace conoscerlo a fondo e leggere molte delle sue opere.
L’estate scorsa mia figlia mi ha suggerito di leggere La Famiglia Karnowski, di Israel Singer, i cui libri sono stati pubblicati in Italia solo di recente, il fratello maggiore del più noto Isaac ,
Non sprecherò aggettivi, perché questo romanzo non ne ha bisogno. E’ un capolavoro, punto e basta. La cosa interessante è che ogni lettore ci trova qualcosa di diverso.
E’ una saga famigliare, che descrive le vicende alterne di tre generazioni, dall’emancipazione del padre che si vuole sottrarre al provincialismo e all’arretratezza del povero villaggio in cui vive e si sforza di apprendere il buon tedesco e imparare i modi cittadini per inserirsi nella grande Berlino, al figlio che è inserito nella società della grande città, ama la bella vita, ma diventerà un affermato professionista solo dopo l’esperienza tragica della prima guerra mondiale anche grazie a un buon matrimonio, al giovanissimo “erede” che non ha le spinte del padre e del nonno ma è più confuso, come spesso capita ai giovani che non hanno dovuto combattere per affermare il loro stato, e fatica a discernere tra il bene e il male. Pensiamo a tante storie di nostri immigrati, di self-made men, di grandi famiglie i cui eredi spesso non sono all’altezza dei loro nonni.
E’ la storia di un’epoca che da “belle” è diventata terribile, che ha visto orrori inimmaginabili, che ha avuto bisogno di nuove parole per descrivere ciò che stava succedendo: genocidio, razzismo, nazionalsocialismo, fascismo, campi di sterminio, guerra mondiale.
E’ un romanzo di formazione, e che formazione, di tre giovani, che lottano per la loro crescita, che vogliono disperatamente affermare la loro personalità, la loro autonomia, la loro individualità. Tre padri, tre figli, uno diverso dall’altro.
L’altra mia figlia, psicologa, mi ha detto che vi sono descritte molto bene le “sociopatie” tipiche delle diverse società ed epoche in cui vivono i protagonisti.
E’ la storia, o meglio, l’annuncio, di un’emancipazione femminile, con i suoi risvolti faticosi e dolorosi. A che cosa dovrà rinunciare la bella e intelligente Elsa per affermare i suoi diritti, per svolgere la sua lotta politica?
E’ un affresco sociale, con tutte le sfumature dei sentimenti, degli affetti, dei rancori, delle invidie, delle furberie, delle miserie umane, presenti là dove ci sono degli uomini e delle donne, cioè dappertutto.
Sono ebrei i Karnowski, ma la loro è una storia che va oltre il tempo, il luogo e la religione.
E’ soprattutto una vicenda umana e in quanto tale universale. Non per niente piace a tutti, giovani e meno giovani, uomini e donne.
Un mio giovane collega, che dice di essermi grato per averlo introdotto a un certo tipo di letture – e non è certo analfabeta, essendo laureato a pieni voti in lettere classiche – afferma che La Famiglia Karnowski offusca tutti gli altri libri che ha letto quest’estate, e sono moltissimi.
Di Israel Singer ho voluto leggere un altro romanzo, precedente, Yoshe Kalb. Un caso Bruneri-Canella yiddish, con tutte le ambiguità che può comportare una confusione di identità. Un affresco impietoso di una società chiusa e patriarcale, con le sue regole e le sue leggi a volte crudeli. La descrizione di un microcosmo che si è sviluppato all’interno di un mondo difficile e spesso ostile, come la Zona di Residenza degli ebrei sotto l’impero russo e anche asburgico, dove i pogrom erano frequenti ed era essenziale restare uniti. Ma il prezzo da pagare poteva essere molto alto. Pensiamo al giovane protagonista di questa storia. Un ragazzo adolescente, destinato agli studi rabbinici, che deve sposare un’altra giovanissima, che non ha mai nemmeno incontrato. Vede la moglie di suo suocero il patriarca, poco più che coetanea, e se ne innamora perdutamente, è il suo primo amore. Disperazione, sensi di colpa terribili, vicende drammatiche, nella corte di questo potente capofamiglia. In seguito a una tragedia il giovane sparisce, poi riappare, forse è lui, forse non è lui. C’è un grande processo, inevitabile pensare a Kafka, ma, soprattutto, c’è grandissima sofferenza.
L’associazione a Kafka non deve stupire. Anche il grande scrittore praghese, infatti, aveva studiato a fondo il mondo yiddish e tanti riferimenti ritornano nelle sue storie. Qui non sono velati, è un mondo descritto nei minimi particolari, in tutti i suoi aspetti, le regole ferree, le consuetudini, le superstizioni, le feste e le tragedie, le luci e le ombre. Si stentano a ritrovare i pensieri gioiosi raccolti da Martin Buber ne I Racconti dei Chassidim, ma c’è sempre la voglia di giustizia, l’amore per la legge, la ricerca del bene anche nel male, la voglia di capire. Mi hanno particolarmente colpito queste parole sul “peccato”:
“… Cieco è colui che, se ha incespicato ed è caduto, crede che non vi sia più speranza, poiché Dio è misericordioso, e ha dato all’uomo la forza di riparare il male che ha commesso. E, benché i suoi peccati siano rossi come un filo scarlatto, con il pentimento possono diventare bianchi come la neve.” Diceva una voce…
…Un’altra voce rideva beffarda: “Sciocco è colui che pensa che con i digiuni e le privazioni potrà avvicinarsi all’unità. Sciocchi! Non sanno che il pensiero dell’uomo è mille volte più forte del peccato stesso; e la meditazione sul peccato che non viene commesso è più malvagia del peccato stesso; poiché il peccato in sé è cosa fuggevole, mentre il pensiero è eterno. Poiché quando l’uomo ha ceduto alla cattiva inclinazione, e si è saziato, allora il peccato non è più in lui, perché se ne è liberato…”
Parole affascinanti, che continuo a ricordare, anche dopo mesi che ho finito di leggere Yoshe Kalb.
Ho trovato in casa un libro di Kirkegaard, La difficoltà di essere cristiani. I libri di Israel Singer potrebbero chiamarsi La difficoltà di essere ebrei.

Un’eredità di avorio e ambra, di Edmund de Waal

Animista è una parola che mi piace. Mi fa ritornare bambina, quando collezionavo tesori, una medaglietta, una spilla rotta, un pezzetto di pelliccia, oggetti scovati nel cestino della carta straccia che a me sembravano preziosissimi.
Questo libro è la storia di tanti piccoli oggetti, che preziosi lo sono davvero, che sono stati lasciati in eredità all’autore di questo libro. “Ti lascio questo perché ti voglio bene. Perché qualcun altro l’ha lasciato a me. Perché te ne prenderai cura, perché ti complicherà la vita. Le eredità non sono mai banali”, si legge sulla copertina.
Non è un caso che questa speciale collezione di netsuke giapponesi sia stata lasciata da un prozio a questo nipote, artista, ceramista, inglese. Lo scopriremo leggendo questo libro: Un’eredità di avorio e ambra, di Edmund de Waal. Ci affezioneremo a questi oggetti minuscoli, perfetti, ognuno la raffigurazione di un momento nella vita di un animale, di un uomo, di un monaco, di un bambino, di un lottatore di Sumo. Oggetti da portare con sé, in tasca, da toccare, da contemplare. Come hanno fatto ad arrivare fino a Edmund? Da dove sono partiti?
Edmund de Waal è curioso, ripercorre insieme a noi la storia di questi oggetti, una storia di globalizzazione, diremmo adesso, indissolubilmente legata alla storia della famiglia della nonna paterna, gli Ephrussi. Una famiglia molto speciale, un po’ come i Rothschild, con cui peraltro era imparentata, ma meno fortunata. Una famiglia originaria di uno sperduto paese dell’Ucraina e di conseguenza all’impero russo, poi trasferitasi ad Odessa agli inizi dell’ottocento, da dove si spostò ancora verso il centro Europa, Parigi, Vienna.
Sono ricchi gli Ephrussi: posseggono una banca a Vienna e una a Parigi, vivono in splendidi palazzi. Chi non ha la vocazione degli affari l’ha per l’arte o per la storia. Charles Ephrussi a Parigi è amico e mecenate dei maggiori pittori impressionisti, Degas, Manet, Renoir… Vive un’intensa vita mondana, è amico di Proust, lo si può ritrovare in molti ricordi della Recherche.
Sono ebrei gli Ephrussi. “Gli ebrei sono tutt’altro che irreprensibili” si legge nel libro. Duelli, amanti. Ricchi, forse troppo, considerati dei parvenus. “Proteggere il proprio nome e l’onore della famiglia diventa sempre più difficile per gli ebrei di Parigi”. Charles è critico ed esperto d’arte, ma soprattutto è un gran collezionista. Commissiona quadri, acquista oggetti. E’ il tempo in cui impazza il japonisme, la moda per gli oggetti giapponesi. Charles compra una ricca collezione di netsuke, e li ripone in una vetrina.
Quando il cugino Viktor, di Vienna, si sposa, gli regala la collezione di netsuke, con la loro vetrina. La città giusta al momento giusto? Dalla Parigi della Belle Époque, degli impressionisti e di Proust, alla Vienna di Francesco Giuseppe, Schönbrunn, Sissi, ma anche di Freud, Kraus, e Musil. La nonna di Edmund de Waal – l’autore del libro – si chiama Elisabeth in onore di Sissi, è molto intelligente e sarà una delle prime donne a laurearsi in diritto. Il padre di Elisabeth è Viktor, il banchiere che ama soprattutto i suoi libri e la sua biblioteca. La mamma, Emmy, una bellissima donna che passa da una festa all’altra, da un amante all’altro. Abitano nel Palais Ephrussi sul Ring, la passeggiata imperiale di Vienna, un palazzo lussuoso, anzi sfarzoso, che oggi ospita anche un casinò. Emmy vede i suoi figli, Elisabeth, Gisela e Iggie, solo una volta al giorno, mentre si cambia per la serata, nel suo spogliatoio, dove ha trovato posto la vetrinetta con i netsuke. Ai bambini è permesso aprirla, prendere in mano questi piccoli meravigliosi oggetti e giocarci. Ma i giochi finiscono. Vienna è travolta dalla guerra, insieme all’impero. Tutto cambia, tutto finisce. Iggie “scappa”, prima a Parigi, poi a New York, impara a vivere con pochi mezzi. Arrivano a Vienna molti poveri profughi, ebrei dalla Galizia, gli ebrei in genere sono sempre più malvisti, ci vuole il capro espiatorio nei momenti di crisi. 1938, l’Anschluss, l’annessione dell’Austria. Un mondo che crolla, uno, terribile, che nasce. Molti ebrei avevano già lasciato l’Austria, non gli Ephrussi. Ora è tutto più difficile. Molti sono i suicidi. Smarrimento, incredulità. La banca è “arianizzata”, il palazzo sequestrato. Emmy muore, suicidio? Elisabeth riesce a portare a Londra il vecchio padre Viktor.
Non andrà meglio per il ramo francese della famiglia. Alcuni parenti moriranno ad Auschwitz. “Le calunnie, l’astio, le invettive rivolte alle famiglie ebraiche, alla fine erano esplose in tutto il loro orrore anche a Parigi”.
E i netsuke? Per uno di quei casi straordinari della storia, questi minuscoli oggetti sono tra i pochissimi a salvarsi dalle requisizioni naziste grazie all’astuzia di una fedele domestica, che era riuscita a nasconderli in un materasso. Di tutto un palazzo, di tutti gli oggetti, i quadri, i libri preziosi, si salvarono solo loro e trovarono posto in una modesta valigetta. Solo in seguito gli eredi Ephrussi ebbero un misero risarcimento per tutto il danno subito.
Dopo la guerra Iggie accettò un lavoro in Giappone, così riportò a casa i Netsuke. E’ lì che Edmund li vede per la prima volta, in occasione di un soggiorno di studio a Tokio. E’ lì che comincia a capirli e ad amarli. Giusto che alla morte dello zio Iggie sia lui a riceverli in eredità e scoprirne la storia.
Il suo è stato un viaggio a ritroso nel tempo e nella storia della famiglia molto lungo e doloroso.
Leggere questo libro è stata per me un’esperienza sinestetica: oltre a godere della narrazione e della scrittura intima, elegante, ho cominciato ad amare questi oggetti, a provarne curiosità, voglia di conoscerli, mi si è aperta una piccola finestra su questo mondo a me sconosciuto, il Giappone dei giapponesi. Ho avuto voglia di tenerli fra le mani, toccarli, accarezzarli, giocarci,
averne uno a farmi compagnia, come la tigre con gli occhi fiammeggianti intarsiati di corno giallo. Racconta l’autore di averla dimenticata un giorno sopra degli appunti su un tavolo della British Library, ma di averla ritrovata al suo ritorno, intatta. Era “minaccia allo stato puro. Nessuno ha osato toccarla”.
Edmund de Waal, critico, storico dell’arte e professore di ceramica alla University of Westmister, è uno dei più famosi artisti della ceramica inglesi. Vive e lavora a Londra. Un’eredità di avorio e ambra è il suo primo libro: subito accolto con entusiasmo dalla critica e dal pubblico, ha collezionato recensioni autorevoli e suscitato i commenti appassionati dei lettori, salendo inesorabilmente nelle classifiche di vendita. Ha ricevuto due tra i più ambiti premi letterari, il Costa Biography e il New Writer of the Year al Galaxy Book Award.