“Nosce te ipsum” “Conosci te stesso” .. chi lo diceva? Di certo l’Antico Filosofo Greco, e comunque chi ha sempre a portata di mano la citazione giusta. Ma è vero, perché noi passiamo una vita a studiare, a imparare, a conoscere, però spesso ci sorprendiamo nello scoprire lati finora ignoti della nostra personalità. Caterina, per esempio. A scuola non era certo la prima, nei temi più che un sei e mezzo, al massimo un sette, non prendeva; della storia la preoccupavano solo i compitini a sorpresa in cui si salvava solo perché stava attenta in classe e aveva buona memoria, la matematica e i numeri non facevano per lei, però l’algebra le piaceva perché c’erano le lettere. Le scienze, nel suo liceo linguistico, erano proprio assenti. Affermava anche che non avrebbe mai fatto l’insegnante.
Poi ha insegnato per trent’anni, ha scritto per diletto e per dovere, e si è appassionata alla storia, tanto. I numeri li ha lasciati al consorte, che si è meritato tutto il suo rispetto perché fa la denuncia dei redditi. Le scienze, come i numeri, sono rimaste assenti, ma in cuor suo Caterina sa che l’alchimia le piacerebbe. Legge infatti tutti i foglietti illustrativi delle medicine e, grazie alla sua memoria, ne ricorda tutti i nomi, anche quelli dei principi attivi. Ha infatti sempre rapporti molto cordiali, più che con i medici di cui ha grande soggezione, coi farmacisti con i quali intrattiene, appena possibile, piacevoli conversazioni. Non i farmacisti di città o di quelle farmacie grandi come supermercati, no, con gli speziali di paese, così autorevoli, dotti e prodighi di consigli e antico sapere. E’ forse con loro che comincia ad appassionarsi alle erbe officinali. Le basta conoscerne il nome, è troppo maldestra e imprecisa per preparare pozioni o impiastri, ma vuole saper riconoscere le piante e conoscerne le caratteristiche e le virtù. Certo, molte le sono già famigliari, a cominciare dalle ortiche, dalle piante spinose, o da quelle che da bambini si succhiavano per gustarne il dolce o il sapore aspro, come il caprifoglio (Lonicera) o l’erba cucca, (Rumex acetosa), la salvia, che la mamma diceva che faceva così bene ai denti, con le cui foglie ci pulivamo i denti. E poi il basilico, o il timo, che la mamma metteva sui pomodori d’estate, ma che a Caterina non piaceva. La camomilla era più diffusa di oggi, ma non era gradita, così come la tisana di fiori di tiglio era odiata, entrambe associate a ricordi di mal di pancia o influenza. Per non parlare degli odiati impiastri di semi di lino, che scottavano un sacco. I fratelli di Caterina facevano anche una specie di cicca con la resina dei pini, una schifezza e un disastro perché la resina si appiccicava dappertutto, persino sui capelli. Il nonno parlava anche di ruta e di radici di genziana come di una prelibatezza amara da mettere nella grappa, che Caterina non beveva. L’erba iva, (Achillea moschata) era ed è il digestivo per eccellenza. Degli amici la chiamano lo sturalavandini. Ancora oggi fa parte della farmacopea di casa, adottata anche da generi e nuore. Caterina ha anche scoperto che il farfaro fa bene alla tosse, il suo fiore è bellissimo piccolo, giallo, sembra un sole, ma poi sviluppa delle brutte fogliacce invadenti. L’arnica ha sempre avuto un grande fascino, forse per la bellezza dei suoi fiori, ma solo in anni recenti Caterina si è buttata nella preparazione della tintura. Ce n’è ancora una grande bottiglia in montagna con un teschio sull’etichetta a segnalarne la velenosità. La usiamo, nell’illusione che allevi i dolori reumatici..
Ma da quando è cominciata l’insana passione di Caterina per i fiori selvatici? Appena sposata si era comprata un’enciclopedia a dispense che si chiamava Fiori in Casa, e aveva imparato tanti nomi di fiori coltivati, “cultivar”, che bel nome latino, un passivo! Poi però si era un po’ scoraggiata, perché nei supermercati, in primavera, scopriva un’infinità di nuove piantine, belle, esotiche e delicate, che non conosceva proprio, e aveva rinunciato a stare al passo con le new entries, come con l’elettronica.
Elettronica, parola chiave in questa storia. In regalo, forse per i sessant’anni o per altra triste ricorrenza, Caterina riceve la sua prima macchina digitale. Caterina in gioventù aveva lavorato come traduttrice alla Kodak, nome glorioso, e aveva imparato i rudimenti della fotografia. Come sempre un po’ imbranata non aveva mai imparato a fotografare bene, troppo complicato, ma le piaceva tanto. Lo dimostrano i cassetti pieni di vecchie fotografie, dove andranno quando non ci saremo più? Era affascinata dai primi piani, ma non aveva una reflex, non osava cimentarsi con gli obiettivi intercambiabili. Adesso, con quel piccolo apparecchio può fare di tutto – o quasi – persino i primi piani, che si chiamano macro. E così, comincia, clic, clic, clic, fa tutto lei, quella macchinetta, trova i tempi, la luce, la profondità di campo, la distanza, ISO, ASA, DIN, flash, nessun problema, clic e la foto riesce. E poi non deve spendere una fortuna per le stampe. Non stampa più. Potrebbe farlo in casa, ma si consuma troppo inchiostro, anch’esso carissimo. Viaggi, panorami esotici, statue, chiese, c’è persino la modalità “musei” e “interni”, così, a meno che non dimentichi di togliere il flash, può fotografare senza farsi vedere o disturbare. Si sente una spia. In Uzbekistan ha fotografato di nascosto un ponte proibito.
In Turchia, oltre alle tante meraviglie, ha fotografato una lucertola che sembra un dinosauro. E proprio viaggiando scopre altri particolari da fotografare. Non le piace però fotografare le persone, i vecchi grinzosi, le scene di miseria, che diamine, un po’ di rispetto! I vecchi poveri sono stati giovani e forse non amano essere né vecchi, né poveri. Lasciamoli in pace!
A Ischia visita un giardino di piante grasse e uno di orchidee, clic, clic, clic, che fiori meravigliosi.. In Toscana o nel Lazio durante un viaggio culturale si distrae e si lascia incantare da ciclamini primaverili, come mai adesso?, e da fiorellini azzurri, il suo colore preferito, la borragine. Che belli, clic, clic.
Riemerge così questa passione sopita, che forse ardeva come brace sotto la cenere, per i fiori selvatici. Per lei da bambina, creatura cittadina, trovare una genziana era un regalo, così come un’orchidea selvatica. Capiva che la preziosità del fiore era inversamente proporzionale alla sua diffusione, certo le margheritine le piacevano, così come i non-ti-scordar-di me celesti e rosa che rappresentavano i fioretti nel mese di maggio, ma i fiori gialli dei denti di cane li disprezzava, anche se si divertiva con i soffioni. Con i bucaneve, o campanellini (Leucojum vernum), si divertiva a metterli nel boccettino d’inchiostro e a vederli diventare blu. Con grande piacere ha insegnato questo trucco anche alle sue nipotine. Ricorda il latte di gallina (Ornythogalum umbellatum), o l’erba porraia (Celidonia) proprio perché producevano un latte, o la Parietaria, con cui si appiccicavano decorazioni ai vestiti, o le palline di Bardana che ci tiravamo addosso. Erano i giochi estivi. Caterina aveva fatto una classifica mentale della preziosità dei fiori. Al primo posto erano appunto le genziane e le genzianelle, per il loro splendido colore, ma anche i botton d’oro. Le stelle alpine erano oltre le sue possibilità, mai trovate. Così, quando andava a fare delle passeggiate con il papà, guardava e cercava di imparare. La zia P. le aveva regalato un erbario, un astuccio di latta con un lungo cinturino, da portare a tracolla e in cui riporre i fiori che trovava. Non ricorda di averlo mai usato, chissà dov’è finito.
Adesso il suo erbario è la macchina fotografica. Sta tuttavia scoprendo che più la macchina è sofisticata più è difficile fotografare. E poi ci vuole l’occhio. Sa Caterina di non averlo, ma le piace tanto scattare, clic, clic, ,quindi persevera, imperterrita.
Sta diventando un’ossessione, una vera e propria mania. Ha scoperto però di essere in buona compagnia, proprio grazie ai moderni mezzi di comunicazione. Più o meno contemporaneamente all’apparecchio digitale ha cominciato, anche quello in modo maniacale, a frequentare internet e il più famoso dei social media: Facebook. I figli, con una buona dose di snobismo, lo evitano, dicono che è una forma di voyeurismo, ma Caterina va oltre. Continua a sostenere che se ne può fare un uso virtuoso. Infatti. Comincia a vedere foto di fiori, funghi e montagne, evita le volgarità, le banalità, gli insulti e la politica, ma è affascinata dalla competenza e preparazione di alcuni frequentatori. Si iscrive a un gruppo botanico! La generosità dei membri. Basta che metta una foto e qualcuno gentilmente le dice il nome giusto del fiore. Cosa desiderare di più. Dare un nome alle cose e alle persone è un atto religioso, biblico. Non avevano più nome gli internati dei campi di sterminio, ricordiamolo. Impara un sacco, Caterina e si illude di sapere qualcosa. Capisce che si è avvicinata a un mondo quasi sconosciuto, ma non ha più voglia di studiare sui libri, preferisce l’esperienza sul campo, nel vero senso della parola. Certo, va a controllare sui libri o sui siti botanici, ma preferisce sempre l’aspetto magico. Ricorda come le era piaciuto, in un libro di Jonathan Coe, leggere della risposta di un bambino a un compagno saputello che spiegava con dovizia di termini scientifici la sintesi clorofilliana: “no – rispondeva il bambino che amava le fiabe – io so che c’è un omino che va di notte con un secchiello di una speciale vernice a dipingere le foglie di verde”. Non uccidiamo la magia e la fantasia, saranno sempre e comunque dei grandissimi incentivi all’apprendimento. Infatti Caterina ha un bosco magico frequentato anche da simpatici scoiattoli, dove dei folletti piantano per lei tanti bei fiori di tutti i colori, in tutte le stagioni. Ma non le basta più. Vorrebbe tanto scoprire nuovi esemplari da far vedere agli “amici” di facebook, per ricevere, oltre al nome, un complimento, un cuore, una manina alzata in segno di approvazione. Così comincia ad esplorare altri boschi, non troppo lontani, e a volte è premiata con un esemplare nuovo, raro, mai visto. Come ieri, in un bosco poco sopra una zona residenziale di ricche ville con piscina. Cammina in quel bosco come tanti fra castagni, faggi e ciliegi; con felci, pungitopo e primule nel sottobosco, i primi fiori gialli sui muri, quando il suo sguardo è attratto da un ciuffo di fiori rosa pallido. Si avvicina, cerca di capire di che arbusto si tratta, giunge alla conclusione che forse è una pianta coltivata scappata da un giardino vicino. Fatica molto a fare una foto decente, luce, distanza, mano non inferma ma nemmeno troppo sicura, e clic, clic. Chissà che cosa ha scoperto. A casa va di corsa al computer, scarica le foto, cerca di renderle presentabili e via, eccole “postate” (che orribile parola). Non resta che aspettare il parere di qualche gentile esperto. È vero che quando ha visto la foto sul computer Caterina nota qualche sfilacciatura sui bordi dei petali, ma non si è preoccupata, anzi. Due anni fa aveva trovato una genziana “cigliata”, appunto con delle sfrangiature sui bordi dei petali che impreziosivano il fiore.
Dimentica la cosa per il tempo necessario per preparare la cena, mangiare, sparecchiare, poi va a controllare se c’è una reazione. Il responso c’è, anzi sono due. Il primo: Sono sfrangiati, come fossero tessuto, li hai toccati? Il secondo: Comunque trattasi della specie Bougainvillea plastificata L..E adesso, dove troverà Caterina il coraggio di “postare” ancora qualcosa?